Anime Sismolese
Prefazione di Angelo De Nicola al libro "Sismi dell'anima" di Carlo Marchi
L'Aquila, 6 aprile 2011
di ANGELO DE NICOLA
di ANGELO DE NICOLA
L’anima è la più angosciante spia
che un nemico possa mandare
(Emily Dickinson)che un nemico possa mandare
Il “nostro” terremoto del 6 aprile ha confermato, se ce n’era bisogno, che le anime si ammalano. Le anime degli Aquilani sono malate gravi. “Sismolese”. E di certo non perchè molti hanno perduto tutto quello che avevano (casa, lavoro, per non parlare di chi ha perduto affetti) ma perchè gli Aquilani hanno perduto la loro identità di Popolo: “La gente ha paura della solitudine, quella solitudine che è nata dalla perdita delle conoscenze, delle abitudini, delle regole sociali che stavano nei quartieri”.
Perciò, nell’ormai sterminata, ridondante e, in alcune occasioni, stucchevole produzione editoriale (127 titoli, mentre scriviamo, secondo il Servizio Informativo sul Sisma Memoria L’Aquila: cfr. al link polo servizi culturali abruzzo) sul prima, durante e dopo il 6 aprile, ha un suo carattere di originalità questa fatica di Carlo Marchi. Originale e fondamentale per capire una tragedia che, nemmeno gli aquilani che l’hanno vissuta, riescono a capire. E perciò, non riescono a superarla.
Chi, non avendolo vissuto, vuol capire quali crepe nell’anima ha lasciato il 6 aprile, dovrà confrontarsi con queste pagine sofferte. Chi, invece, l’ha vissuto, leggendo quest’opera può rafforzare i pilastri della sua anima lesionati dal sisma, anzi può tentare la difficile operazione della “ricostruzione” di se stesso.
Certo, il mio non è un giudizio sereno. Non tanto perchè sono un aquilano che ha la consapevolezza di essere “sismoleso” (“È come se fossi nascosto tra la gente che sta seguendo il mio funerale. Sento che il terremoto ha fatto terminare la mia vita lì, e sento il mio viso segnato da una profonda malinconia, ma anche sorrido, che tanto ridere o piangere è più o meno la stessa cosa; le tragedie della vita fanno ridere e piangere”). Non tanto perchè anch’io ho tentato un’analoga operazione nel mio contributo (“Il nostro terremoto”, non a caso dello stesso, illuminato, Editore), e cioè usare la scrittura come antidoto, seppure nell’immediato, della mia-nostra tragedia (“Mentre scrivo mi sento accompagnato, e così penso di essere ascoltato e non ho paura”). Non sono sereno perchè ho avuto la fortuna (o la sfortuna? chissà) di fare da compare di battesimo a questa operazione di catarsi di Carlo Marchi. Vivendo entrambi di sogni donchisciotteschi, avendo interessi comuni, legati dall’aver fatto dello scrivere la nostra vita intellettuale, Carlo mi ha dato la possibilità (o la sofferenza?) di assistere al concepimento, alla gestazione, al parto e, ora al battesimo di questo suo “figlio”.
Sì, “figlio”. Dove le virgolette sono ancor di più un segno di rispetto per il Carlo Marchi padre. Il Carlo Marchi genitore di Diego. Ovvero di un “sisma”, la paternità ancor più complessa di Diego (“Quel giorno che Diego, mio figlio, partì per la sua terra, il Brasile, pensai di scrivergli senza sapere se le mie lettere gli sarebbero arrivate e quindi senza sperare nelle sue risposte. Un modo per lenire il sisma della partenza, per lenire i sismi della mia anima”), che si somma al 6 aprile. Che anzi, fa fa moltiplicatore dei sismi dell’anima dell'Autore. Di fronte ai quali il 6 aprile, sisma personale e collettivo, diventa la tragedia più bassa nella classifica dei drammi e del dolore. Diventa addirittura un fatto “positivo”. Una sorta di “digerseltz” che fa dipanare una matassa di sismi molto più complessi perché interiori. Sismi che erano aggrovigliati e che il 6 aprile finisce col mettere ciascuno sotto un singolo riflettore. Un’operazione di semplificazione, si dirà, come un carciofo che viene destrutturato foglia a foglia per poterne gustare il senso più profondo. Nient’affatto. Il 6 aprile complica maledettamente il quadro dell’anima dell’Autore (e le nostre a anime di Aquilani) perché, inquadrati meglio dall’“occhio di bue”, i vari sismi divengono protagonisti nel palcoscenico del vivere. E ognuno di questi sismi vuole recitare la sua parte. Sgomitando con gli altri per guadagnare il ruolo di prim’attore.
Uno, nessuno, centomila sismi in cerca d’autore. Per Carlo Marchi è gioco facile interpretare il ruolo di autore, lui, “dopo 35 anni di prigione”, consumato regista sul palcoscenico della vita: “Sono stato un educatore in tante carceri, cercando di capire, di essere attento al mondo degli emarginati, degli umili, degli imbranati, dei dimenticati, dei delinquenti. Il carcere come un uomo che lancia un urlo terribile, il carcere come orgoglio, come timore, quelli che vi vivono ed hanno vissuto la propria esistenza in maniera assolutamente appassionata, un’avventura da vivere sino in fondo. Gente fatta di frammenti con un appetito per la vita insaziabile, gente di colossali errori e di grande ironia. Esseri sovrannaturali che interferiscono con le azioni umane. Ho passato 35 anni della mia vita a interrogare, a parlare, a sostenere, a rimproverare, a urlare con i disperati che abitano dietro alle porte della società”.
Lui, grande sismografo di anime per mestiere: “Passeggio lungo la cinta del carcere e guardo il vento che mi scivola addosso, guardo i colori del tramonto, guardo il grigio di tutte le carceri, guardo la mia identità, ma ormai sono in un altro posto e guardo altrove, non indago più le zone più oscure della personalità, i recessi di ambiguità e tenebra, non accompagno più l’ascolto. Mi prendo tutta la disperazione di un lavoro che alla fine non ho più la forza di fare, e sono ricordi già sfocati per una insopportabile incapacità di resistere agli umori dei disperati, alle grida dei bambini che vanno a trovare i loro padri, alle infinite lingue che si sono accumulate negli anni, ai cancelli che si chiudono con la chiave e a quelli che si aprono con un mouse”.
Un “gioco” all’apparenza facile ma di grande, grandissima sofferenza. L’aver cercato, per mestiere, di comprendere gli altri per lunghi anni, ha ora reso l’educatore Carlo Marchi un’indifesa educanda alla disperata ricerca di risposte che cerca di rimettere ordine nel palcoscenico della sua anima: “E quando pensi che sia finita,/ è proprio allora che comincia la salita./ Che fantastica storia è la vita”(Antonello Venditti).
Uno, nessuno, centomila sismi: “Sono molto stanco. Sento di aver scritto di una nostalgia lancinante; una terra che non c’è più, una terra lontana, la tristezza di aver conosciuto una breve infanzia. Sento di aver guardato dentro, dentro di me e in te, e sento ancora una coperta addosso, quella che mi copriva dal terremoto, e guardavo me e guardavo te, voi. Ho scritto di cose che sono accadute, altre che avrei voluto accadessero in modo diverso, cose che non sono accadute perché ho avuto paura che accadessero. Ciao Diego, a presto”. E’ l’ultimo ciak del regista Carlo marchi del film sulla sua anima. L’ultimo ma, forse, potrebbe essere il primo.
Perciò, nell’ormai sterminata, ridondante e, in alcune occasioni, stucchevole produzione editoriale (127 titoli, mentre scriviamo, secondo il Servizio Informativo sul Sisma Memoria L’Aquila: cfr. al link polo servizi culturali abruzzo) sul prima, durante e dopo il 6 aprile, ha un suo carattere di originalità questa fatica di Carlo Marchi. Originale e fondamentale per capire una tragedia che, nemmeno gli aquilani che l’hanno vissuta, riescono a capire. E perciò, non riescono a superarla.
Chi, non avendolo vissuto, vuol capire quali crepe nell’anima ha lasciato il 6 aprile, dovrà confrontarsi con queste pagine sofferte. Chi, invece, l’ha vissuto, leggendo quest’opera può rafforzare i pilastri della sua anima lesionati dal sisma, anzi può tentare la difficile operazione della “ricostruzione” di se stesso.
Certo, il mio non è un giudizio sereno. Non tanto perchè sono un aquilano che ha la consapevolezza di essere “sismoleso” (“È come se fossi nascosto tra la gente che sta seguendo il mio funerale. Sento che il terremoto ha fatto terminare la mia vita lì, e sento il mio viso segnato da una profonda malinconia, ma anche sorrido, che tanto ridere o piangere è più o meno la stessa cosa; le tragedie della vita fanno ridere e piangere”). Non tanto perchè anch’io ho tentato un’analoga operazione nel mio contributo (“Il nostro terremoto”, non a caso dello stesso, illuminato, Editore), e cioè usare la scrittura come antidoto, seppure nell’immediato, della mia-nostra tragedia (“Mentre scrivo mi sento accompagnato, e così penso di essere ascoltato e non ho paura”). Non sono sereno perchè ho avuto la fortuna (o la sfortuna? chissà) di fare da compare di battesimo a questa operazione di catarsi di Carlo Marchi. Vivendo entrambi di sogni donchisciotteschi, avendo interessi comuni, legati dall’aver fatto dello scrivere la nostra vita intellettuale, Carlo mi ha dato la possibilità (o la sofferenza?) di assistere al concepimento, alla gestazione, al parto e, ora al battesimo di questo suo “figlio”.
Sì, “figlio”. Dove le virgolette sono ancor di più un segno di rispetto per il Carlo Marchi padre. Il Carlo Marchi genitore di Diego. Ovvero di un “sisma”, la paternità ancor più complessa di Diego (“Quel giorno che Diego, mio figlio, partì per la sua terra, il Brasile, pensai di scrivergli senza sapere se le mie lettere gli sarebbero arrivate e quindi senza sperare nelle sue risposte. Un modo per lenire il sisma della partenza, per lenire i sismi della mia anima”), che si somma al 6 aprile. Che anzi, fa fa moltiplicatore dei sismi dell’anima dell'Autore. Di fronte ai quali il 6 aprile, sisma personale e collettivo, diventa la tragedia più bassa nella classifica dei drammi e del dolore. Diventa addirittura un fatto “positivo”. Una sorta di “digerseltz” che fa dipanare una matassa di sismi molto più complessi perché interiori. Sismi che erano aggrovigliati e che il 6 aprile finisce col mettere ciascuno sotto un singolo riflettore. Un’operazione di semplificazione, si dirà, come un carciofo che viene destrutturato foglia a foglia per poterne gustare il senso più profondo. Nient’affatto. Il 6 aprile complica maledettamente il quadro dell’anima dell’Autore (e le nostre a anime di Aquilani) perché, inquadrati meglio dall’“occhio di bue”, i vari sismi divengono protagonisti nel palcoscenico del vivere. E ognuno di questi sismi vuole recitare la sua parte. Sgomitando con gli altri per guadagnare il ruolo di prim’attore.
Uno, nessuno, centomila sismi in cerca d’autore. Per Carlo Marchi è gioco facile interpretare il ruolo di autore, lui, “dopo 35 anni di prigione”, consumato regista sul palcoscenico della vita: “Sono stato un educatore in tante carceri, cercando di capire, di essere attento al mondo degli emarginati, degli umili, degli imbranati, dei dimenticati, dei delinquenti. Il carcere come un uomo che lancia un urlo terribile, il carcere come orgoglio, come timore, quelli che vi vivono ed hanno vissuto la propria esistenza in maniera assolutamente appassionata, un’avventura da vivere sino in fondo. Gente fatta di frammenti con un appetito per la vita insaziabile, gente di colossali errori e di grande ironia. Esseri sovrannaturali che interferiscono con le azioni umane. Ho passato 35 anni della mia vita a interrogare, a parlare, a sostenere, a rimproverare, a urlare con i disperati che abitano dietro alle porte della società”.
Lui, grande sismografo di anime per mestiere: “Passeggio lungo la cinta del carcere e guardo il vento che mi scivola addosso, guardo i colori del tramonto, guardo il grigio di tutte le carceri, guardo la mia identità, ma ormai sono in un altro posto e guardo altrove, non indago più le zone più oscure della personalità, i recessi di ambiguità e tenebra, non accompagno più l’ascolto. Mi prendo tutta la disperazione di un lavoro che alla fine non ho più la forza di fare, e sono ricordi già sfocati per una insopportabile incapacità di resistere agli umori dei disperati, alle grida dei bambini che vanno a trovare i loro padri, alle infinite lingue che si sono accumulate negli anni, ai cancelli che si chiudono con la chiave e a quelli che si aprono con un mouse”.
Un “gioco” all’apparenza facile ma di grande, grandissima sofferenza. L’aver cercato, per mestiere, di comprendere gli altri per lunghi anni, ha ora reso l’educatore Carlo Marchi un’indifesa educanda alla disperata ricerca di risposte che cerca di rimettere ordine nel palcoscenico della sua anima: “E quando pensi che sia finita,/ è proprio allora che comincia la salita./ Che fantastica storia è la vita”(Antonello Venditti).
Uno, nessuno, centomila sismi: “Sono molto stanco. Sento di aver scritto di una nostalgia lancinante; una terra che non c’è più, una terra lontana, la tristezza di aver conosciuto una breve infanzia. Sento di aver guardato dentro, dentro di me e in te, e sento ancora una coperta addosso, quella che mi copriva dal terremoto, e guardavo me e guardavo te, voi. Ho scritto di cose che sono accadute, altre che avrei voluto accadessero in modo diverso, cose che non sono accadute perché ho avuto paura che accadessero. Ciao Diego, a presto”. E’ l’ultimo ciak del regista Carlo marchi del film sulla sua anima. L’ultimo ma, forse, potrebbe essere il primo.
Di tutti i veleni l’anima è il più forte
(Novalis)Angelo De Nicola