L'Aquila Oggi. Una Città Fantasma - Ma Dobbiamo Farcela
Rivista Distretto LIONS "Lions Insieme"
n.21 Settembre-Ottobre 2010
L’Aquila come è oggi? L’Aquila, semplicemente, non è. Ad un anno e mezzo dalla notte della fine del mondo, L’Aquila, la mia città che è anche una madre, è un fantasma. Direi uno zombie: nel senso che cammina, ma non ha un’anima.
Non c’è l’ha innanzitutto come città. L’Aquila viveva abbarbicata attorno al suo centro storico, il sesto in Italia per numero di monumenti, che ne era non soltanto il motore sociale (12.000 abitanti), economico (1.300 attività commerciali), ma soprattutto psicologico. Il centro storico, a dispetto di informazioni a volte strumentali («Il miracolo aquilano!») a volte dilettantesche («Riaperto il centro storico!»), è ad oggi ancora militarizzato. Nel senso che, fatta eccezione per un percorso che l’attraversa tra i tubi innocenti di puntellamenti ciclopici (un bene, certo, ma anche un male perchè così all’esterno si pensa che sia tutto tornato ad una quasi normalità mentre le attività riaperte sono solo sei, dico sei, e nessuno abita i palazzi deserti), nella “zona rossa” non si può accedere come ricordano i posti di blocco dei militari. Chi ha necessità (magari soltanto per un bisogno psicologico) di tornare a casa propria, deve fare la fila al Comando dei vigili del fuoco. Avere il permesso. Procurarsi un caschetto. Essere scortato. Sotto l’occhio dei pompieri (che Dio li benedica!), non puoi nemmeno piangere in privato davanti o dentro (per chi può ancora accedervi) a quel che resta di casa tua, della tua vita prima del 6 aprile. Se il centro storico non rinasce (c’è chi parla di 20 anni, chi di una battaglia persa), L’Aquila non sarà. Sarà un altra cosa, ma non L’Aquila.
Ma un’anima non sembra averla nemmeno il Popolo Aquilano. Il fiero Popolo Aquilano che, per ben due volte (nel Trecento e nel Settecento), ha ricostruito la sua città distrutta dal terremoto. Annichilito dalla tragedia, sballottato dalla “guerra” politica tra gli opposti schieramenti scoppiata attorno al grande affare della ricostruzione, narcotizzato dalla polvere e dall’odore di morte (mentre gli sciacalli si fregavano le mani nel letto un minuto dopo la scossa devastate), il Popolo Aquilano è come fermo sull’uscio della sua città che non c’è. Aspetta non si sa chi e non si sa cosa. Aspetta forse un altro “miracolo” dopo quello dell’immediata emergenza. Il popolo è quasi rassegnato al fatto che la classe dirigente, inadeguata già in tempi di pace, non saprà dimostrarsi all’altezza dei tempi di guerra. Il Comune dell’Aquila, per esempio, ad un anno e mezzo non ha ancora una sede degna di questo nome ma tanti uffici sparsi in cui molti cittadini (soprattutto gli anziani, i più colpiti perchè non hanno la speranza di rivedere la loro città) hanno deciso di non perdersi più ed umiliarsi, anche a costo di perdere benefici.
La fierezza del Popolo Aquilano si dissolve. Perde le sue battaglie: non ha più energie per sostenere le proprie ragioni contro chi ha la prepotenza di fare affari nel «più grande cantiere d’Europa». Molti cittadini (soprattutto professionisti, la spina dorsale) hanno deciso di non rientrare all’Aquila. Molti stanno pensando di andar via. «Cosa faranno i nostri figli in una città che non c’è? Il lavoro non c’è, i servizi nemmeno, per non parlare di luoghi di aggregazione come potrebbe essere una semplice piazza... L’Aquila è morta».
L’Aquila non è morta. Ha però bisogno di aiuto. Per ritrovare la speranza di poter rivedere il suo centro storico, la sua “acropoli”. L’Aquila ce la farà. Il Popolo Aquilano ce la deve fare. “Jemo ’nnanzi”.
L’Aquila, settembre 2010
Non c’è l’ha innanzitutto come città. L’Aquila viveva abbarbicata attorno al suo centro storico, il sesto in Italia per numero di monumenti, che ne era non soltanto il motore sociale (12.000 abitanti), economico (1.300 attività commerciali), ma soprattutto psicologico. Il centro storico, a dispetto di informazioni a volte strumentali («Il miracolo aquilano!») a volte dilettantesche («Riaperto il centro storico!»), è ad oggi ancora militarizzato. Nel senso che, fatta eccezione per un percorso che l’attraversa tra i tubi innocenti di puntellamenti ciclopici (un bene, certo, ma anche un male perchè così all’esterno si pensa che sia tutto tornato ad una quasi normalità mentre le attività riaperte sono solo sei, dico sei, e nessuno abita i palazzi deserti), nella “zona rossa” non si può accedere come ricordano i posti di blocco dei militari. Chi ha necessità (magari soltanto per un bisogno psicologico) di tornare a casa propria, deve fare la fila al Comando dei vigili del fuoco. Avere il permesso. Procurarsi un caschetto. Essere scortato. Sotto l’occhio dei pompieri (che Dio li benedica!), non puoi nemmeno piangere in privato davanti o dentro (per chi può ancora accedervi) a quel che resta di casa tua, della tua vita prima del 6 aprile. Se il centro storico non rinasce (c’è chi parla di 20 anni, chi di una battaglia persa), L’Aquila non sarà. Sarà un altra cosa, ma non L’Aquila.
Ma un’anima non sembra averla nemmeno il Popolo Aquilano. Il fiero Popolo Aquilano che, per ben due volte (nel Trecento e nel Settecento), ha ricostruito la sua città distrutta dal terremoto. Annichilito dalla tragedia, sballottato dalla “guerra” politica tra gli opposti schieramenti scoppiata attorno al grande affare della ricostruzione, narcotizzato dalla polvere e dall’odore di morte (mentre gli sciacalli si fregavano le mani nel letto un minuto dopo la scossa devastate), il Popolo Aquilano è come fermo sull’uscio della sua città che non c’è. Aspetta non si sa chi e non si sa cosa. Aspetta forse un altro “miracolo” dopo quello dell’immediata emergenza. Il popolo è quasi rassegnato al fatto che la classe dirigente, inadeguata già in tempi di pace, non saprà dimostrarsi all’altezza dei tempi di guerra. Il Comune dell’Aquila, per esempio, ad un anno e mezzo non ha ancora una sede degna di questo nome ma tanti uffici sparsi in cui molti cittadini (soprattutto gli anziani, i più colpiti perchè non hanno la speranza di rivedere la loro città) hanno deciso di non perdersi più ed umiliarsi, anche a costo di perdere benefici.
La fierezza del Popolo Aquilano si dissolve. Perde le sue battaglie: non ha più energie per sostenere le proprie ragioni contro chi ha la prepotenza di fare affari nel «più grande cantiere d’Europa». Molti cittadini (soprattutto professionisti, la spina dorsale) hanno deciso di non rientrare all’Aquila. Molti stanno pensando di andar via. «Cosa faranno i nostri figli in una città che non c’è? Il lavoro non c’è, i servizi nemmeno, per non parlare di luoghi di aggregazione come potrebbe essere una semplice piazza... L’Aquila è morta».
L’Aquila non è morta. Ha però bisogno di aiuto. Per ritrovare la speranza di poter rivedere il suo centro storico, la sua “acropoli”. L’Aquila ce la farà. Il Popolo Aquilano ce la deve fare. “Jemo ’nnanzi”.
L’Aquila, settembre 2010
Angelo De Nicola